Quando c'era il dazio sul cartone.

«Sono qui per il dazio».
Lo chiamavano ancora così gli italiani negli anni ‘60, nonostante il governo lo avesse rinominato Imposta Comunale di Consumo.
Era una tassa per finanziare i comuni d’Italia.
Si pagava dazio sul vino, sui liquori e sulle carni.
Poi, dopo la guerra, l’imposta fu estesa ad altri prodotti: nella lista c’era anche il cartone.

«Che cos’ha da dichiarare?»
«8 quintali di cartone».
Il camion saliva sulla piattaforma in acciaio della pesa comunale.
Il daziere controllava il peso, registrava i dati necessari al comune e poi lanciava un cenno di assenso all’autista.
Il camion allora ripartiva per andare a consegnare la merce all’azienda che la stava aspettando.

Quando arrivava in Abar il compito di ricevere la merce spettava a me.
I clienti li seguiva mio marito in quel periodo: era lui che trattava con i clienti.
Io invece mi occupavo dei loro ordini e quindi anche degli acquisti di materie prime necessarie per eseguirli.
Allora andavo in centro negli uffici del comune perché c’era il dazio.

Perché quando arrivava un camion carico di 8 quintali di cartone la domanda te la facevi se il fornitore aveva o non aveva pagato il dazio.
Per i fornitori che conoscevi come le tue tasche non era necessario farsi tante domande, ma per tutti gli altri ti sorgeva più di qualche sospetto.
Erano quelli i tempi che vivevamo: non potevamo farci niente.
E allora, alla mattina presto mi presentavo in comune, facevo la fila davanti allo sportello in attesa di ricevere la risposta a quella domanda.
«Paga dazio?»

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