Una porta aperta verso la Milano che cresceva.

Prova tu a smontare una delle nostre macchine di stampa offset.
A separare i gruppi e tutte le parti principali che li compongono.
E poi rimontala quella macchina per restituirle la sua compattezza, bella e funzionante.
A me stare in affitto non è mai piaciuto.
Ci vogliono giorni a smontare e rimontare tutti quei pezzi.
Se il proprietario ti chiede di lasciare il capannone, hai di fronte a te un lavoraccio che, tra l’altro, ti costringe a fermare il tuo lavoro.
In un capannone di tua proprietà invece monti la macchina nel luogo prescelto e da lì non la sposti più.

Il primo capannone lo acquistammo insieme.
Eravamo agli inizi: una realtà di piccole dimensioni che stava facendo i primi passi nel settore della stampa cartotecnica.
Solo quando abbiamo avuto la necessità di avere un’area di lavoro più grande, io e mio marito abbiamo preso in considerazione la possibilità di traslocare.
Erano gli anni ’60 e molti cercavano di costruire qualcosa di proprio.
E quando la realtà si presentava quello che c’era da fare lo facevi: un sopralluogo, un contratto firmato, le chiavi in mano di qualcosa di tuo.
Prima in via Ebro, poi in via Bernardino Verro.

In quegli anni l’area confinava con la campagna.
Fummo i primi ad aprire una porta sull’altro lato del terreno, in via Carlo Bazzi.
Feci la domanda in comune e arrivò l’autorizzazione.
Avevo creato pure un piccolo giardino: lì coltivai la mia passione per il verde, ortaggi più che piante da ornamento.

Aprire quella porta fu un gesto premonitore, perché alcuni anni dopo costruirono la strada.
Milano si popolava, Milano si ingrandiva.
Il piccolo giardino allora diventò il percorso che portava all’ingresso in azienda.
Abbiamo sempre visto più in là di quello che ci stava davanti.

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